Il futurismo lavora le parole, le mastica, come fossero ogni volta composte da metalli e vibrazioni, mette così alla portata di tutti lo spazio capovolto dalla realtà tecnologica. Già, la tecnologia, questo vortice che avanza nel tempo e crea lacerazioni con il passato, non è possibile voltarsi, non è possibile nascondersi, bisogna entrare in quel marasma, cavalcarlo con dinamismo e coraggio. Nulla di irraggiungibile poiché qualunque pedalatore in bicicletta può esaltarsi di sensazioni nel “salirescendere” incontro al vento. E come non percepire il trambusto plastico di un tram sferragliante per le vie cittadine? Bisogna raccogliere questo patrimonio, tradurlo con spontaneità su carta, nell’arte, nella pittura. Ecco il futurismo della prima ora. Certo per paragonare “una trincea irta di baionette” a “un’orchestra”, o “una mitragliatrice” a una “femmina fatale” ci vuole l’impudenza poetica di Marinetti. Ma chiunque può gridare “voglio sentirmi in diretta comunicazione con l’universo”. L’anima è un telefono, è un telegrafo, è un motore che romba, un aereo che cabra; così nel metallico mistero batte un cuore ignoto, e una scheggia di vetro illuminata dal sole garantisce parole superbe per sentirsi ancora vivi e per questo privi di paura in attesa della morte.

Il futurismo dunque come nuova pratica linguistica, come nuova filosofia, un groviglio di fili ed esperienze agiscono nel suo orizzonte culturale e simbolico. Una genialità rudimentale, intuizioni straordinarie, pretese totalizzanti, risultati frammentari, fascino pressochè irresistibile esercitato per qualche anno (tra il 1910 e il 1915) e poi una caduta quasi precipitosa nel modernariato dei dilettanti, riduzione a una frangia marginale e nemmeno tanto pittoresca dell’estetica fascista. C’è gente, morta giovane o longeva, che ha continuato a scrivere e che ha smesso negli anni Venti o Trenta, gente che è esistita solo nel futurismo, e per niente disprezzabile, come Pocarini, Escodamè e Ruggero Vasari. E c’è gente che non ha mai slittato completamente nel futurismo eppure, vedi Palazzeschi, ha futuristeggiato per un certo periodo. Si direbbe che il movimento sia stato una droga ideologica, chi l’ha presa sul serio e chi l’ha provata cautamente per tirarsi un po’ su.

Finchè la scrittura poetica futurista accumula immagini e sensazioni, come accade per esempio nel Govoni del 1911-1915, senza vero stravolgimento delle norme, non succede niente che si possa considerare tipico. Infatti, dopo Rimbaud, tutto rientra nella “normalità”. La vera uscita dalle norme accade con i testi paroliberi di Marinetti e Boccioni apparsi in Lacerba del 1913. Qui siamo davvero slittati. Qui troviamo versi che assomigliano al Bloom di Joyce. (Qualche studioso ha anche abbozzato l’idea che Joyce a Trieste leggesse Lacerba). Gli intrecci quindi si mischiano, le conclusioni potrebbero portare davvero lontano nel mare delle idee, delle suggestioni ma come sempre il gesto più importante è aprire i libri, assaggiare in prima persona, far trionfare soggettività che ricama punti di vista nelle foresta spesso priva di sentieri della letteratura italiana del Novecento.

Tratto da Autunno del Novecento di Alfredo Giuliani, Feltrinelli, Milano, 1984.

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