Mi piacerebbe fare un libro L’Analfabeta musicale, una raccolta di pezzi di critica musicale scritti negli anni per il Corriere della Sera in particolare sugli spettacoli alla Scala di Milano. Avrò scritto 200 o 300 pezzi, sarà difficile fare una scelta perchè su certe opere ho scritto otto-dieci volte, per il repertorio che si ripete.

Ma oltre all’interesse verso la musica, scovando nei ricordi in ordine sparso, sicuramente riaffiora il mio rapporto con il canto, andavo a lezione da un maestro alle 8 del mattino, un’ora e poi alle 9 mi recavo in biblioteca. Ero il primo ad entrare, gli impiegati mi guardavano male perchè avrebbero preferito stare tranquilli fino alle 10. Gironzolavo negli scaffali scovando tesori, trovai le opere di Jules Lemaitre, per esempio, I contemporanei, un classico; poi quelle di Edmondo Scherer che era stato il biografo, quasi lo scopritore di Amiel; così lessi molti libri francesi che dopo non avrei più avuto l’occasione di leggere. Quello fu un periodo abbastanza fortunato. I miei studi di canto finirono improvvisamente con la morte del mio maestro ma già meditavo di darmi alla fuga perchè cominciavo a scrivere qualche articolo sul “Lavoro” di Genova e su qualche altro giornale. La morte del maestro comunque fu decisiva, mi trovai improvvisamente su una sponda del tutto diversa e poi non avrei resistito all’ambiente, non avrei resistito alla vita dell’artista lirico che è piena di sacrifici e che impone due qualità diverse e inconciliabili: il genio e l’imbecillità.
Nella mia famiglia io ero l’unico che non aveva attitudini letterarie, tutti i miei fratelli avevano attitudini letterarie, anche mia sorella. Mi ricordo un professore che mi diceva sempre “lei Montale non potrà mai scrivere sulla Domenica del Corriere…” come massima aspirazione letteraria. Poi sicuramente dentro di me c’è stata una lenta conversione, non so da dove sia giunta. Sicuramente da certe letture, ma anche da altro, per esempio una scoperta della musica di Debussy mi fece un certo effetto. Poi la pittura moderna, l’impressionismo, i poeti simbolisti, tutte queste cose, tutte queste influenze. Anche l’inglese. Ho studiato da solo l’inglese. Dico, tutto questo insieme di influenze fecero sì che a vent’anni mi ero sviluppato un gusto letterario al di là delle previsioni.
Quando si parla di gusti, spesso mi chiedono del mio rapporto con la triade Pascoli-Carducci-D’Annunzio. Posso affermare che sono sempre rimasto estraneo dal rapporto con le loro idee di poesia, non nemico ma estraneo. Pascoli mi sembrava un poeta, di certo molto notevole, ma molto, troppo dolciastro per il mio temperamento. Troppo sentimentale, questa era l’opinione che avevo. Oggi se avessi tempo tornerei a leggerli per vedere l’effetto che mi fanno. D’Annunzio sovrastava soprattutto come personaggio, era un mostro quindi era difficile rendersi conto del suo valore come poeta. E’ ancora oggi credo in discussione, e credo che un po’ di lui sia rimasto appiccicato a tutti i poeti che sono venuti dopo. Ma d’altronde come ho già detto altre volte, senza Victor Hugo non sarebbe mai sorto Baudelaire.
Questi discorsi, questi ricordi, guardarsi indietro a volte mi suscitano dei dubbi sull’esistenza reale del mondo. Ma allo stesso tempo proponendo questi punti di vista, tornando su quei momenti, io mi devo convincere veramente che ho avuto un’esistenza, non solo morale e psicologica ma anche una vera esistenza fisica. Insomma provare a osservarsi come mi hanno visto gli altri. Questo è molto curioso, molto strano e anche mi dà una certa soddisfazione, perchè vivere proprio in un’illusione forse non sarebbe la migliore delle soluzioni. Di questa consapevolezza io sono molto grato a voi lettori, e a tutti coloro incontrati sul mio percorso, e ovviamente mi congratulo anche con me stesso.
Tratto da Proposte di lettura di Leone Piccioni, Rusconi, Milano, 1966.

Condividi questo articolo!