Così entrai all’Einaudi, prendendo servizio il primo settembre del 1961. Calvino, puntuale, era lì ad aspettarmi: la mia scrivania era perpendicolare alla sua, nella stessa stanza. Cominciò il mio anno di praticantato con lui. Vi era un ruolo all’Einaudi chiamato il responsabile dell’ufficio stampa, coperto da una sola persona la quale gestiva tutta una serie di funzioni che andavano dal risvolto o sguardia di un libro, alla quarta di copertina, alla fascetta editoriale fino agli slogan pubblicitari, i comunicati per i giornali, le note per i venditori e i librai. In una grande casa editrice oggi questo lavoro è diversificato, nel senso che è spesso affidato a più servizi e a più persone. Allora all’Einaudi era responsabilità di una persona sola: e Calvino non si era mai sottratto a tutto questo insieme di pratiche. Dovevo imparare da lui il disegno, le immagini, il linguaggio per ognuna di queste funzioni. “In che collana esce? Quante righe hai? Quante ne vuoi riservare all’intreccio? Quante al suggerimento di lettura?”. Aveva cominciato così con me con domande – osservazioni specifiche figlie dei suoi quindici anni di esperienza nel mondo dell’editoria. “Stai attento che noi non imponiamo un libro, ma lo proponiamo. Allo stesso modo non lo giudichiamo ma suggeriamo una delle tante strade per leggerlo. Non lasciarti andare mai a valutazioni”. Questo rigore Calvino non lo applicava solo con me ma anche con se stesso, infatti “Il libro dei risvolti calviniani” curato da Chiara Ferrero nel 2003 ha ben documentato questo tipo di approccio: massima essenzialità, chiarezza e sobrietà di scrittura.

Per fortuna non vivevamo soltanto in ufficio, c’erano abbastanza spesso le passeggiate e le cene. Nelle lunghe camminate cercavo di sfilargli spesso e volentieri giudizi su classici e contemporanei, in parte conoscendo, in parte tentando di intuire le sue predilezioni in merito. Così lo spingevo a parlare di Ovidio e delle Metamorfosi (uscirà un’edizione eccellente nel ’79 nei Millenni Einaudi a firma di Piero Bernardini Marzolla). “E’ il più grande poeta nell’universo della mitologia” sentenziava “perché riesce a stabilire di continuo un sistema di rapporto tra gli dèi, la natura e gli uomini”. Ma era sull’Ottocento europeo che mi ostinavo a farlo parlare. Su Conrad, innanzitutto, su cui si era laureato “in quello scrittore esistevano due universi irrazionali: il cupo e insondabile mondo naturale, con l’oceano a suo specchio e simbolo, e l’inconscio dell’uomo, non meno imperscrutabile e tenebroso”. Ma poi c’erano Balzac, Poe, Maupassant, Cechov. “Balzac” diceva “è un eroe, a suo modo, della scrittura estensiva: pretende che si possa scrivere il mondo e per lui il mondo coincide spesso con l’universo brulicante della città, e questa città è la sua Parigi, esplorata in orizzontale e in verticale”. Poi dopo un attimo di pausa e incalzato dalle mie domande riprendeva “Poe invece è legato al fantastico e del fantastico esplora tutti i possibili registri. Sin dalla giovinezza i suoi racconti sono collocati nel Pantheon delle mie letture predilette…”. Su Cechov era lapidario e mi interrompeva spesso bruscamente “…ma non è lì che devi guardare se vuoi scoprire l’autentico Cechov: come le storie comiche non sono le sue più felici anche se aveva un autentico talento da umorista. Ci sono racconti lunghi in cui è davvero tragico e profondo, forte e duro, tutto concretezza di gesti e oggetti. Leggiti La camera n. 6 oppure Il duello“.

Spesso mi lasciava così, con questi spunti, con questi inviti di lettura e così mentre scendeva la sera su Torino ci lasciavamo. Credo sia affascinante ogni tanto tornare su questi suggerimenti e donarli al fluire del tempo presente come un ricordo che possa ancora generare curiosità e cultura nelle nuove generazioni.

Tratto da: Incontri con uomini di qualità di Guido Davico Bonino, Il Saggiatore, Milano, 2013.

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